Quando ho cominciato ad andare in montagna? Bella domanda. Boh?
Avendo una madre austriaca trascorrevo almeno un mese l’anno in Austria, spesso in fattoria da amici o in quelli che già allora erano di fatto degli agriturismi. Con mio cugino austriaco facevamo lunghe passeggiate nei boschi, spesso a cercare funghi, oppure quando venivano giù gli acquazzoni estivi, ci rifugiavamo a giocare nelle stalle, fra le vacche e il fienile.
Poi venivano le vacanze in Abruzzo, a Colledara, all’ombra del paretone. Ogni tanto si andava a fare qualche scampagnata alla Madonnina o a Campo Imperatore. Quando andavamo su alla Madonnina, che fosse a piedi dalla Piana del Laghetto oppure con quella specie di seggiovia lentissima che facevi quasi prima a piedi invece che seduto coi piedi a penzoloni, ci mettevamo seduti sull’erba e Papà si divertiva a battere la mano per terra e ogni volta diceva la stessa cosa: “senti come suona vuoto il terreno qui?”. Ricordo anche tante veloci sortite a vedere le meraviglie naturali nascoste della nostra zona, il pisciarellone nel Vallone di Fossaceca, il Malepasso, il Gravone quando ancora era innevato, l’imponenza della parete Nord del Camicia visto dal basso a due metri dall’attacco, e così via. Ricordo anche i racconti che mi faceva Papà sulle sue gite sulle cime della zona e certe sue fissazioni: “su Monte Brancastelloci sono un sacco di stelle alpine, ma crescono sull’orlo dei precipizi, quando le vedi devi stare attento”.
Questi sono i miei ricordi di infanzia della montagna, una montagna però più osservata che frequentata in senso tecnico. Poi a vent’anni cominciai a sentire fra gli amici in paese a Colledara i racconti di chi era andato sulla Punta. La Punta per noi di Colledara è la vetta del Corno Grande, il culmine del paretone che come una meridiana accompagna le nostre giornate a valle. E così un giorno chiesi all’amico Lelio se gli andava di accompagnarmi appunto su alla Punta. Fu una giornata memorabile, ricordo bene lo stupore dal passaggio dai verdi prati dell’Arapietra al paesaggio roccioso del Vallone delle Cornacchie, il silenzio rotto solo dal gracidare dei gracchi, il rifugio Franchetti di cui fino ad allora conoscevo l’esistenza soprattutto per via di quella lucetta che tutte le sere vedevo accendersi da casa. Ma più di ogni altra cosa mi rimasero impressi gli alpinisti appesi in parete, le loro voci che si scambiavano comandi di cordata. Soffrivo di vertigini ai tempi, ma mi chiesi “chissà se un giorno anche io riuscirò a stare lì”. Poco dopo mi iscrissi all’unico corso che ho mai frequentato in montagna, un corso roccia organizzato dalla scuola Paolo Consiglio a Roma e iniziai ad arrampicare.
Negli anni successivi ho arrampicato tanto, fatto tanto scialpinismo, Mountain Bike, ecc.. ma l’escursionismo è sempre stato un elemento imprescindibile nella mia attività di “montanaro”.
In quegli anni oltre che con Lelio, spesso andavo a camminare con Franco, altro amico compaesano di Colledara. Franco era più grande di me e sul Gran Sasso era di casa. Si andava assieme spesso anche a fare delle notturne. Uno dei ricordi più belli e ben fissati nella mia memoria fu una notturna che facemmo alla vetta Orientale del Corno Grande. Salimmo per la Ricci. Oggi è una ferrata ben sistemata, ai tempi quel poco di ferro che c’era era meglio non toccarlo, figuriamoci poi di notte. Insomma salire lì col buio fu la nostra piccola avventura con la luna che illuminava appena il calcare dei due Corni. Ricordo il freddo intenso all’approssimarsi dell’alba, i primi raggi di sole che uscivano dal Mare Adriatico e l’intimità di aver condiviso con un amico quei momenti in silenzio e nell’immensa solitudine che ti dà stare sulla vetta più alta dell’Appennino.
Franco purtroppo non c’è più da diversi anni, una banalissima scivolata su terreno innevato ci ha privato della sua sfrontata ironia, ma noi continuiamo ad andare in montagna.
Il video qui sotto, di Marco Gabriele, oltre a essere un bel ricordo del nostro amico è un bel documento dei tempi che furono. 🙂